Tangeri non è stata per me una città da colpo di fulmine.
L’ho conosciuta gradualmente, mi si è svelata pian piano come una donna gelosa del suo fascino e un po’ diffidente.
Credo sia necessario visitarla più di una volta, farle la corte con delicatezza.
Lei non sempre ti ripaga subito, il cielo è spesso nuvoloso e il vento ti schiaffeggia, ma se non demordi e sai attendere pazientemente, è capace di inondarti di una luce straordinaria, di quel profumo unico di spezie e di mare che solo qui puoi trovare. Te ne innamori ed è un sentimento destinato a durare perché frutto di frequentazioni assidue e profonde.
Da Rue d’Italie, nel cuore del Quartier Italien, mi inerpico per la Kasbah.
Mi sembra di camminare in bilico tra Oriente ed Occidente, vivendo una sorta di frattura tra i due mondi che mi accompagna sempre quando sono a Tangeri. Indugio tra i vicoli colorati e risanati dai tempi in cui la città era un crocevia internazionale e tutta la medina con il porto erano avvolte da un’aura di mistero.
Passato e presente mescolati armoniosamente, come accade del resto in tutte le medine del mondo arabo, mi stordiscono e mi fanno perdere l’orientamento: il vociare dei bambini, i piccoli negozietti di generi alimentari con un mix olfattivo unico tra profumo di tradizione e di modernità, l’anziano che passeggia in jellaba curvo sotto il peso della Storia che si porta addosso.
Mi imbatto, quasi per caso, nella tomba del grande Ibn Battuta, il Marco Polo del mondo arabo, nato a Tangeri e considerato uno dei più grandi viaggiatori di tutti i tempi. Questo uomo senza confini, animato dal bruciante desiderio di esplorare il mondo, riposa qui, paradossalmente, in un piccolo angolo quasi nascosto, tra viuzze così strette che è quasi impossibile vedere il cielo.
Camminando a testa in su, ammirando terrazze di incantevoli case oggi abitate prevalentemente da stranieri che hanno deciso di investire in Marocco, mi ritrovo di fronte al Dar Makhzen, il secentesco palazzo del Sultano, oggi sede di un interessantissimo Museo di cultura mediterranea. Entro e tra le varie sale maiolicate che si affacciano nell’ampio patio in classico stile moresco, secoli e secoli di Storia mi assalgono.
Sento però sempre più intenso il profumo del mare; quel Mediterraneo così denso di vita, con le sue onde e sponde cariche di civiltà che aleggia tra quelle stanze, si materializza a pochi passi da lì.
Accelero perché ho bisogno di vederlo dal vivo e a poche centinaia di metri lo intravedo già sotto un arco dei bastioni da poco ristrutturati che cingono la Kasbah. Lo attraverso per non frapporre nessuna barriera tra me e il Mare Nostrum.
E’ una giornata di sole, limpida, in cielo nessuna nuvola ma solo i disegni tracciati in volo dai gabbiani. C’è lo stretto di Gibilterra di fronte a me, la Spagna, c’è l’Occidente così tanto impastato di Oriente.
Sotto c’è il nuovo piccolo porto appena ristrutturato. Quello gigantesco Tanger-Med, uno dei più importanti del Mediterraneo, è stato spostato a circa 30 Km da Tangeri.
Ma io non voglio guardare in basso, voglio godermi questo osservatorio privilegiato qui in alto, dalla Kasbah. Mi volto verso destra e scorgo l’ampia baia con la sua brulicante modernità. Mi giro a sinistra e vedo le bianche case antiche della medina. Una donna, seduta sul muretto, si lascia accarezzare dal vento che fa fuoriuscire qualche ciocca dei suoi capelli corvini custoditi gelosamente dall’hijab bellissimo e colorato. Mi avvicino silenziosamente perché non vorrei perdermi questo scatto interessante: donna velata di fronte al mare. Noto il suo sguardo malinconico, mi ritraggo subito, sento di violare la sua intimità, magari sta assaporando la libertà che il mare sa regalare o sta godendo degli orizzonti liberi annientando con il suo sguardo ogni confine.
Magari ha il suo innamorato in Occidente e non potrà facilmente coronare il suo sogno di amore.
Il silenzio che ci avvolge viene interrotto da note di musica araba-andalusa.
Lì, nella piazzetta della Kasbah, noto un piccolo cenacolo di musicisti che solitamente si esibiscono al tramonto. Mi avvicino ad uno di loro che ha tra le mani un oud, il tipico liuto arabo, questo strumento cordofono capace di sprigionare note cariche di struggente malinconia. Mi offre un tè alla menta, non abbiamo bisogno di parole, il nostro incontro avviene tra silenzio e musica. Per circa mezz’ora sono l’unica spettatrice di un concerto speciale a due passi dal Mediterraneo.
É ormai pomeriggio e mi affretto a ridiscendere verso il Petit Socco per riposarmi un po’ tra gli avventori del famoso Cafè Central. Accanto a me noto signore occidentali che sorseggiano un succo d’arancia intente a raccontarsi l’intensa mattinata di shopping, uomini marocchini che guardano e commentano una partita di calcio. E penso che ai tempi della Beat Generation, quando Tangeri era “zona internazionale”, in quel posto sostavano abitualmente William Burroughs, Jack Kerouac ePaul Bowles. Purtroppo il Cafè ha conservato poco del fascino di quell’epoca. Al Cafè Tingis di fronte, invece, si può respirare ancora un’atmosfera malinconica tipica delle città di mare come Lisbona.
Mi sposto verso il Grand Socco e decido di gustare un aperitivo nel Grand Hotel Villa de France lì vicino, luogo amato da artisti come Henri Matisse che in una delle stanze di questo hotel dove soggiornava abitualmente, dipinse uno dei sui quadri più famosi. Dalla terrazza godo di una vista privilegiata che cerco di catturare il più possibile con lo sguardo.
Ormai è l’ora del tramonto e ascolto l’adhan, l’appello alla preghiera che proviene dalla vicina moschea. L’aria si impregna di spiritualità.
Salgo su una delle terrazze della medina e mi godo questo momento della giornata in cui il cielo si tinge di tutte le sfumature del rosso e tutto si accende di nuovi colori. Vista dall’alto la medina sembra un paesaggio fermo e statico, ma tra le sue labirintiche viuzze pullula di vita vera.
Mi viene da pensare che a pochi km da Tangeri c’è Cap Spartel, con il suo faro battuto da un vento poderoso, dove il Mediterraneo sembra fermarsi al limite delle Colonne d’Ercole per cedere il passo all’impetuoso Oceano Atlantico, come se arretrasse per custodire gelosamente il suo patrimonio.
Tangeri, come tutte le città di frontiera, talvolta mi incupisce, mi fa rimpiangere la solare Marrakech; quando la lascio penso di non volerci tornare a breve perché mi fa sperimentare quella tristezza meditativa e malinconica da spleen baudelairiano. Ma per me, donna di mare, Tangeri ormai è diventata irresistibile.
Ci sono tornata prima dell’estate ed è sempre più forte il desiderio di vivere qui.
E’ certamente la città in Marocco che è più vicina alla mia anima, che più mi rappresenta in questa unione armoniosa di culture, in questa malinconia che aleggia, in questo protendersi verso il mare nel desiderio di infinito.
Lucia Valori