Sette colpi di cannone risuonano gravi in tutta Laayoune, circa 400mila abitanti, in pieno deserto del Sahara. Sono le 19.05 precise. È l’inizio della guerra santa dei musulmani con sè stessi: il Ramadan. Niente acqua, nè cibo per l’intero giorno. La città si fa deserta, i ragazzi sono esenti da scuola. Qualche raro abitante, all’ombra di una palma, immerso nelle pagine del Corano.
Poi, ogni giorno alla sera un colpo fortissimo, all’ora precisa della rottura del digiuno, che qui si chiama “ftur”. “È per me un momento mistico ” mi fa Danilo, giovane gesuita. Ed è quando tutta la gente, riunita in famiglia, in un silenzio assorto, attende il colpo di cannone. Si inizia, allora, come un vero rito collettivo ad aprire la bocca: si mangia, finalmente. Subito un dattero e poi la “harira”, una minestra ricca e densa, che apre e ammorbidisce la gola. E’ come se tutti fossero seduti alla tavola di Dio, dopo una lunga carestia. Sì, in una grandiosa comunione.
Per tutto un popolo è un momento sacro per eccellenza, mentre la moschea canta lunghi pezzi di Corano, per terminarne la lettura a fine Ramadan. La notte, poi, si anima all’inverosibile: una frenesia collettiva si riversa sulle strade e le piazze. Un giornata intera di digiuno, tra preghiera, lettura del Corano e solidarietà, non è una vittoria da poco. Trasforma l’anima. Perchè “è cieco chi guarda soltanto con gli occhi” come si dice qui. In piena notte, poi, riprendo il bus per la città più vicina, a cinquecento chilometri, otto ore di deserto…
Alle prime luci del mattino, ecco una sottile striscia di terra, lunga 40km, si stacca dal continente africano formando una laguna. Come una insolita, enorme strada di sabbia immersa nel mare, essa termina in una città: Dakhla. Posizione unica e suggestiva, viene definita “porta del paradiso.” Il buon clima, il vento, il surf, la sabbia dorata tutta circondata di mare le danno ragione. Turismo e pesca la fanno vivere, come i suoi due polmoni. Moltissimi migranti subsahariani lavorano in particolare nella pesca. Ma per loro è quasi un inferno: lavoro notturno, dodici ore nelle celle frigorifere per 120dh (11€). Lavoro duro e stressante.
Da qui sognano l’Europa: le Canarie sono a due passi, nonostante le tremende correnti. Per questo la prima cosa che mi si porta a vedere è il cimitero. Cumuli e cumuli di terra con una semplice pietra sopra: senza nome, senza data, senza più giovinezza. Le loro famiglie, a migliaia di km. nel pianto. Sono i morti in mare negli interminabili naufragi. Osservo queste pietre poste sopra ogni speranza, ogni sogno per volti e storie venuti da lontano, dopo un estenuante cammino.
Tutto è ormai sotterrato: più di seimila morti nel 2023. Poi, visita alla zona industriale con interminabili camion-cisterna bianchi. I banchi di sardine qui vengono aspirati insieme all’acqua di mare, per conservarne la freschezza, e immediatamente congelati nei frigo. “Peccato che il mare si impoverisce, il lavoro diminuisce, il salario si riduce,” commenta la mia guida. Ed è un punto interrogativo sul domani. A differenza di altrove qui i migranti godono di un lavoro e di una certa stabilità.
A sera, con Valerio, missionario congolese, camminando per le strade della città bussiamo a una porta di povera gente, la famiglia sarahoui di Saida. “L’uomo sarà anche il capo della casa, – precisa qualcuno – ma la donna ne è il cuore”.
Siamo accolti tra tappeti, thè e dolci di ramadan. Per tradizione, i bicchieri di thè che qui si offrono sono tre. Il primo gradevole, ma un po’ amaro, per l’ospite di passaggio, il secondo dolce per l’ospite che si trattiene e il terzo, dolce come il miele, per l’amico che si confida. Tre tempi dell’accoglienza. Sapendo che “il dolore o l’amore è come un tesoro; lo si mostra solo agli amici ” ricorda un proverbio.
“Se dai il cuore, – mi commenta sottovoce Valerio – loro ti daranno il cuore!” , presentandomi come ospite alla prima famiglia in città. Brillano loro gli occhi per l’onore.
Poi, alla partenza, con una tazza di profumi Aya, la ragazza più giovane, vi verrà a spruzzarvi i vestiti. Per la tradizione saraoui, un segno di appartenenza alla famiglia. Sotto la finestra un gruppo di bambini si arresta, cantando una nenia d’occasione, per avere qualche dirham. Mentre i poveri affollano i dintorni delle moschee, per approfittare della solidarietà abituale del Ramadan.
“Chi dà ai poveri presta a Dio” si dice comunemente.
Le moschee, infatti, in questo tempo sono frequentatissime, con tappeti distesi largamente anche fuori, e tanta gente sia dentro che fuori la moschea durante la preghiera. Questa è intercalata ogni tanto da “Allah akbar “(Dio è grande) lanciato dal muezzin, subito ripreso sommessamente da tutto un popolo attorno.
Sia a Laayoune che a Dakhla nelle due chiese, dallo stile anni ’30 al tempo della presenza spagnola, la Caritas è in piena attività. Struttura efficiente e ben motivata, composta di personale volontario e non, è attenta a tutte le persone vulnerabili, senza distinzione, cioè migranti musulmani o cristiani. Sostiene, inoltre, un’opera di assistenza sociale marocchina per migranti come Shakiel El Ambra e l’Association Dakhla des Handicapés, un’assistenza di eccellenza per un centinaio di bambini del territorio.
Si, tutto sembra dire: la grandezza di Dio è l’amore
Padre Renato Zilio
Renato Zilio, Dolo (Venezia), scalabriniano, ha conseguito gli studi letterari presso l’Università di Padova e gli studi teologici a Friburgo e a Parigi. Maîtrise in Teologia delle religioni, ha fatto un viaggio di studi in Cina e in Giappone. Ha diretto il Centro interculturale di Ecoublay per giovani nella grande periferia di Parigi. Ha svolto la sua missione per i migranti a Londra, Ginevra, Marseille, Gibuti e ora a Rabat. È autore di “Lettere da Gibuti” (Edizioni Messaggero di Padova, 2008), e “ Parole dal deserto” (Paoline, 2009), “Vangelo dei migranti” (Emi, 2010) e “Dio attende alla frontiera” (Emi, 2012).