Nel primo anno di guerra, l’avanzata italiana determinò l’evacuazione forzata delle persone ancora presenti nei territori progressivamente occupati. Circa 35.000 individui furono trasferiti nelle province del Regno, spesso senza tenere conto della loro provenienza e separando intere famiglie.
Considerando i richiamati nell’esercito austriaco, coloro che scelsero volontariamente di passare in Italia, i profughi rifugiati nello Stato asburgico e quelli trasferiti nel Regno, la popolazione del Trentino risultò quasi dimezzata rispetto al censimento del 1910, che registrava 386.437 abitanti.
I residenti rimasti nelle zone ritenute non pericolose, perlopiù disabili alla guerra, donne e minori, furono sottoposti a un severo regime militare, obbligati al lavoro coatto, compreso quello femminile, e colpiti da ripetute requisizioni di beni e risorse alimentari. La popolazione soffriva per la crescente scarsità di generi di prima necessità, mentre la produzione si arrestava a causa della carenza di forza lavoro e delle distruzioni belliche.
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I profughi in Italia subirono un destino ancora più difficile, eccetto coloro che trovarono rifugio in alcune colonie modello nel settentrione. L’evacuazione, mal organizzata dal punto di vista logistico, determinò una diaspora in 264 comuni di 69 prefetture distribuite in tutto il Regno, comprese le regioni meridionali. Alcuni furono internati con l’accusa di simpatie filo-austriache.
La maggioranza si trovò a vivere in condizioni igieniche disastrose, esposta a malattie causate dalla scarsa pulizia e dalle difficoltà di adattamento all’alimentazione e al clima. A questi problemi si aggiungevano la mancanza di strutture scolastiche per i giovani e la difficoltà di trovare un’occupazione, nonostante gli sforzi delle Commissioni di patronato e le denunce pubblicate su “La Libertà”, giornale dei fuorusciti trentini.
A differenza del modello austriaco, in Italia la gestione dell’assistenza ai profughi fu carente, almeno fino alla fine del 1917, e aggravata da stereotipi e pregiudizi di carattere politico-nazionale. A tal proposito, Adone Tomaselli, figura di spicco nell’assistenza ai profughi, scrisse alla Commissione dell’emigrazione trentina nel giugno 1916:
“Da molte colonie (Vergato, Oleggio, Mondolfo, Romino, Chiaravalle ecc.) mi giungono lettere desolate dei poveri nostri fratelli. […] Quello che più offende gli sventurati è l’ambiente di freddezza e magari di aperta ostilità che vi trovano: si sentono dare delle spie o dei parassiti a tutto spiano.“
L’assenza di un coordinamento centralizzato aggravò ulteriormente la situazione. Nella zona di guerra, le competenze furono divise tra i comandi militari e il Segretariato Generale per gli Affari Civili, un organo del Comando Supremo incaricato di gestire i rapporti con le amministrazioni civili nei territori occupati dalle truppe italiane. Nel resto del Regno, la questione fu affidata al Ministero dell’Interno, in particolare alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza. Tuttavia, questa si limitò per lungo tempo a emanare direttive generiche e a supervisionare in modo approssimativo l’operato di prefetture ed enti locali, cui fu demandata la gestione concreta dell’assistenza.
Marco Baratto