Ogni anno, durante la Settimana Santa, la liturgia ci propone la lettura della Passione di Gesù. E ogni anno ascoltiamo quel passo che parla del traditore: “Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà”. È una frase presente in tutti i Vangeli sinottici (Matteo 26,23; Marco 14,20; Luca 22,21) e ripresa in modo ancora più simbolico da Giovanni (13,26). Ma quante volte abbiamo davvero compreso il peso di quelle parole?
Per noi, uomini e donne dell’Occidente moderno, abituati a tavole apparecchiate con piatti singoli, posate e regole di galateo, questo dettaglio può sembrare secondario, quasi decorativo. Eppure gli evangelisti lo riportano con grande enfasi. Per capirne il significato profondo, dobbiamo compiere uno sforzo di contestualizzazione e immergerci nella cultura medio orientale del tempo di Gesù — una cultura che per certi aspetti sopravvive ancora oggi nei Paesi arabi e nel mondo semitico.
Nel mondo medio orientale antico, il cibo non era solo nutrimento. Era, ed è ancora oggi, un gesto sociale e spirituale. Le persone si sedevano (e si siedono) a mangiare insieme intorno a una tavola bassa, spesso rotonda, al centro della quale veniva posto un piatto comune. Ognuno si serve con la mano — solitamente la destra — e usa il pane per raccogliere i bocconi. Questa abitudine non è semplicemente una prassi logistica: ha un valore simbolico potente.
Mangiare insieme dallo stesso piatto significa accogliere l’altro come proprio pari, partecipare a un momento sacro di comunione. Non esiste più il ricco e il povero, il forte e il debole, ma solo commensali che condividono lo stesso pane, lo stesso piatto, la stessa umanità. L’uso delle mani, il gesto diretto e personale dell’intingere il pane nel piatto comune, crea un legame fisico ed emotivo.
È la stessa idea che troviamo in un detto attribuito al Profeta Maometto: “Il cibo di due è sufficiente per tre, e il cibo di tre è sufficiente per quattro”. Il significato è chiaro: il cibo, condiviso, si moltiplica. La condivisione genera abbondanza, ma soprattutto crea un vincolo di solidarietà e fratellanza.
Nel racconto evangelico di Giovanni si legge: “È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò” (Gv 13,26). Questo dettaglio merita attenzione. Secondo le usanze del tempo, la persona di maggior prestigio o autorità — il padrone di casa, l’ospite d’onore, il capotavola — è colui che prende per primo il cibo. Tutti gli altri attendono. È una regola non scritta, ma profondamente rispettata.
Gesù, dunque, prende il boccone e lo porge a Giuda. Non è un gesto qualunque: è un atto di profonda intimità e, al contempo, di disvelamento. Gesù sta dicendo: “Io so chi sei”. Ma sta anche compiendo un atto di amore. È come se gli offrisse ancora una possibilità di ravvedimento, un’ultima occasione di comunione. Gli offre il boccone, lo accoglie, lo rispetta. Lo ama, fino all’ultimo.
Ma quel gesto ha anche un’altra implicazione culturale: è una rottura delle convenzioni. Gesù, il Maestro, colui che dovrebbe essere servito, si fa servo. Serve Giuda. È lo stesso ribaltamento che vediamo nel gesto della lavanda dei piedi. Gesù capovolge le regole sociali per mostrare il cuore del Vangelo: l’amore che si dona, che si abbassa, che si espone.
Qui arriva il nodo centrale: il tradimento di Giuda non è soltanto un atto politico o religioso, non è solo la vendita del Messia per trenta denari. È, nel contesto culturale dell’epoca, una violazione profonda di un patto sacro. In molte culture arabe si tramanda un detto che dice: “Quando mangi con qualcuno, non puoi più tradirlo”. Perché? Perché condividere il cibo significa creare un vincolo che va oltre il momento presente. È un patto di lealtà, di fiducia reciproca, di protezione.
Alla luce di questo, Giuda non tradisce solo Gesù. Tradisce l’intero significato della comunione. Tradisce un legame spirituale, umano, culturale. Tradisce quel gesto sacro del condividere lo stesso piatto. È come se rompesse un giuramento silenzioso ma potente. Ecco perché gli evangelisti insistono tanto su quel dettaglio: “colui che mette con me la mano nel piatto”. È lì, in quel gesto quotidiano e carico di significato, che si consuma il peccato più profondo: la rottura della fiducia.
Nella nostra cultura occidentale, in cui spesso il cibo è consumato in fretta, da soli, davanti a uno schermo, questo aspetto rischia di passare inosservato. Ma forse, proprio per questo, dovremmo riscoprirlo. Riscoprire il valore sacro della tavola, il significato profondo della convivialità. Non basta spezzare il pane insieme: bisogna riconoscere l’altro come fratello, entrare in relazione, accettare la vulnerabilità dell’incontro.
Il gesto di Giuda ci interroga. Non solo perché ha tradito Gesù, ma perché ha spezzato un patto umano, troppo umano. Un patto che parla di lealtà, di amore, di fraternità. Un patto che ogni tavola può ancora rinnovare.
Marco Baratto