Il massacro di Thiaroye 44: la necessità di un cambiamento di paradigma?


Domenica 1° dicembre 2024 ricorre l’80° anniversario del massacro a Thiaroye (Senegal) di fucilieri africani di ritorno dalla Seconda guerra mondiale da parte di ufficiali dell’esercito francese. Il movente del crimine sarebbe stato una questione di premi non pagati per il servizio prestato. “Massacro”, ‘fusillata’ o ‘ammutinamento’, la guerra delle parole non ha mai visto un armistizio a distanza di oltre otto decenni, mentre ombre e oscurità continuano ad aleggiare su questa sinistra parte di storia. Solo brandelli di informazioni, affermazioni approssimative, termini di colore politico e cifre inaffidabili…
Da quando i nuovi decisori senegalesi hanno espresso il desiderio di dare all’evento un cachet del tutto particolare e hanno istituito un comitato ad hoc per farlo, le lingue si sono agitate, suonando le campane a morto di un’amnesia ottuagenaria. L’ex presidente francese, François Hollande, ha definito gli eventi un “massacro a colpi di mitragliatrice” su RFI, e cinque deputati francesi hanno seguito l’esempio con la proposta di istituire una commissione d’inchiesta. Meglio ancora, il Presidente della Repubblica del Senegal, Bassirou Diomaye Diakhar Faye, ha dichiarato di aver ricevuto una lettera dal Presidente Macron che riconosceva il “massacro”. Un’improvvisa esplosione di riconoscimenti dalle rive della Senna, con un tempismo molto sospetto.

La maggior parte del dibattito ruota oggi intorno al riconoscimento o meno dei fatti da parte degli ex colonizzatori, relegando in secondo piano le questioni sostanziali. Nel suo discorso all’Università di Niamey, nel maggio 1984, Cheikh Anta Diop criticò il fatto che tutte le domande che gli africani gli ponevano in merito alla sua teoria sulla civiltà africana nell’antico Egitto convergevano su un’unica domanda: “Quando gli occidentali riconosceranno che ciò che lei dice è vero? Oggi questo riflesso di subordinazione sembra persistere nonostante il dichiarato desiderio di ribaltare la situazione.
Certo, è inconcepibile e altamente inappropriato che la stessa Francia che celebra in pompa magna lo sbarco in Normandia cerchi di imporre il silenzio sul massacro di Thiaroye. Tuttavia, questo muro di indifferenza eretto per barricare questa parte odiosa della storia nei pozzi neri dell’inconscio può essere infranto solo da un risveglio collettivo degli africani e da un forte cambio di paradigma verso il nostro passato. Questo significa riappropriarsi della propria storia, indipendentemente dalla visione da cartolina delle ex metropoli coloniali e dei loro umori vacillanti.
Peggio ancora, il dibattito sui risarcimenti, talvolta alimentato da voci autorevoli provenienti dall’Africa, è un diversivo offensivo di fronte all’impossibilità di risarcire questo pregiudizio morale con denaro contante. Sacrilegio!
La delicata riscrittura della storia…


La commemorazione di questi tragici eventi ci ricorda l’immenso compito di riscrivere la nostra storia con la nostra lente d’ingrandimento, con i nostri paraocchi se necessario, e di riappropriarci dei nostri segni e simboli, dei nostri miti fondanti, dei nostri misteri per raddrizzare la spina dorsale di un continente a lungo piegato sotto il peso di una storia orba, una storia straniera, una storia preconfezionata…

“Finché i leoni non avranno i loro storici, le storie di caccia potranno solo cantare la gloria del cacciatore”. Non esiste un popolo senza storia, ma solo un popolo che più di altri ha conservato e mantenuto il diario della propria infanzia. È infatti urgente sradicare dall’oblio le atrocità perpetrate contro i nostri antenati e portare alla luce del sole le loro gesta, le loro prodezze (Dio sa che sono tante) e il loro genio, per restituire l’immagine di una storia africana che è stata a lungo oscurata da secolari tentativi di negare, sminuire, camuffare e persino depigmentare i nostri eroi.
Va chiarito fin da subito che questa riscrittura della nostra storia dal nostro angolo di percezione non deve essere fatta con l’obiettivo di creare una “storia di rivincita” rispetto alla concezione eurocentrica. In questa delicata missione, non dobbiamo cedere alla tentazione di rispondere all’approccio mostruoso di Hegel e Richard Burton con un approccio meraviglioso e vendicativo che perderebbe ogni obiettività. Così facendo, commetteremmo l’errore di sostituire un ritratto inventato e filtrato con una visione da cartolina poco lusinghiera. Invece di sostituire la falsa mappa con un’altra dello stesso tipo, dobbiamo semplicemente presentare il territorio.

Tuttavia, nella ricerca dell’accettazione dell’altro, non dobbiamo cadere in una Storia del consenso, una Storia di una pera da tagliare in due, una Storia liscia e diplomatica.
La riscrittura della nostra storia deve quindi essere libera e oggettiva per sanare le ferite psicologiche del passato. Vitale ma sensibile, deve essere fatta senza competizione o mimetismo, con l’unico obiettivo di conoscere la nostra vera storia e prendere coscienza delle nostre esperienze e del nostro destino per prospettare un futuro radioso. La storia della grande famiglia umana è fatta di imperfezioni, errori, gaffe, oltraggi, profanazioni, errori ripetuti, riaggiustamenti e ancora errori… Ecco perché il peso emotivo di questi eventi storici non deve distruggere la nostra capacità di metterli in prospettiva per poterli meglio comprendere, meglio affrontare e meglio esorcizzare; non come “neri” contro “bianchi”, “africani” contro “europei”, ma piuttosto come “oppressori” contro “oppressi”! Infatti, in tutte le tragedie della storia, molte delle vittime avevano lo stesso colore della pelle dei loro carnefici. L’Africa non ha mai fatto eccezione a questa regola. I subalterni del potere coloniale, gli spahis, le staffette locali della schiavitù avevano a volte la pelle più scura e i capelli più corvini delle loro vittime. E sebbene alcuni popoli abbiano sofferto più di altri, la stupidità umana non ha mai avuto un colore particolare, né tantomeno una dimora fissa.

Riscrivere la nostra storia significa anche riconoscere e accettare questa responsabilità collettiva e transgenerazionale di bandire per sempre i demoni maligni del nostro subconscio.
La necessità di un cambiamento di paradigma
Il compito di riscrivere la nostra storia e di riappropriarci dei nostri segni e simboli, per quanto necessario, è tanto più delicato in quanto rischia di far precipitare le giovani generazioni in burroni scivolosi se affrontato solo superficialmente. Una certa percezione della storia rischia infatti di alimentare un eccessivo vittimismo che porterebbe a un complesso nei confronti degli altri, a una fuga dalle responsabilità e all’ozio intellettuale..

Naturalmente, una versione libera da influenze occidentali e orientali è una necessità in questo contesto di globalizzazione. Tuttavia, è imperativo affrontare queste realtà storiche da una nuova angolazione, in modo da farne un albero che porti le vele dell’Africa attraverso gli oceani, piuttosto che un’ancora che ci tenga inerti nel bacino del dubbio, dell’autocomplessità e dell’autoflagellazione. L’atteggiamento che abbiamo nei confronti della nostra storia ha una notevole influenza sul nostro rapporto con noi stessi e con il resto del mondo. La vittimizzazione rende ulteriormente schiava e alienata la vittima. Dal momento in cui crediamo che il nostro problema sia solo di qualcun altro, assumiamo inconsciamente che la soluzione possa venire solo da lui. In sostanza, adottiamo una posizione di vittimismo perché ci è stato insegnato fin da piccoli che siamo poveri a causa della schiavitù, della colonizzazione e dei loro derivati. Per estrapolazione, dato che la nostra povertà non è colpa nostra, nemmeno il nostro sviluppo è colpa nostra. Sopravvalutiamo gli effetti degli altri sul nostro destino. Come disse Khalil Gibran, “se vuoi detronizzare un despota, fai prima in modo che il trono che ha eretto in te venga distrutto”. Togliere a noi stessi il trono psicologico che abbiamo a lungo eretto per l’occidentale richiederà inesorabilmente una maggiore consapevolezza dei fatti storici e un irreversibile cambio di paradigma.

Serigne Aliou Mbacké

Di wp