Frequento il Marocco da quasi quindici anni e ci vivo stabilmente da cinque. La varietà paesaggistica e culturale è notevole e rende questo Paese davvero unico ed attraente.
Di solito, però, nell’immaginario collettivo, si associa il Marocco al deserto del Sahara, anche se questo occupa solo una piccola parte del territorio.
Viaggio moltissimo all’interno del Paese, avendo il privilegio di farlo spesso al seguito di mio marito, marocchino, guida turistica professionista e agente di viaggio.
Quindi nel corso degli anni ho accumulato emozioni e ricordi dei tanti posti visitati, spesso fissandoli in un taccuino. Ma non sono finora riuscita a scrivere sul deserto, pur avendolo visitato spesso.
Al ritorno da ogni avventura sahariana, l’emozione di raccontare le esperienze vissute mi spinge a fare ordine nei miei pensieri e cercare di darvi un assetto logico da tramutare in parole, ma ogni volta, come se una tempesta di sabbia mi colpisse l’anima, le sensazioni si rinchiudono gelosamente come in uno scrigno e liberarle e condividerle significherebbe quasi disperderle per sempre.
Stamattina, però, qui a Marrakech il cielo è inaspettatamente nuvoloso e all’improvviso si è prepotentemente imposta al mio cuore e alla mia mente una nostalgia disarmante di deserto. Forse è il momento di rendere a parole questi pensieri che da anni conservo nel cuore.
Ed ecco che subito ricordi malinconici, visivi e olfattivi si affollano e mi riportano alla prima volta che, dopo aver lasciato la cittadina di Erfoud con il dolce sapore dei datteri ancora in bocca, mi sono ritrovata di fronte ad un paesaggio impossibile da contenere con strumenti del linguaggio umano.
Ero sulla strada verso Merzouga, a sud est, ai confini con l’Algeria, all’ora del tramonto; all’orizzonte i contorni delle dune Erg Chebbi, queste incredibili formazioni sabbiose che raggiungono un’altezza di circa 150 metri e sono disseminate in un’area di 22 Km.
Avevo la sensazione di non essere in una località geografica, ma di trovarmi in un luogo dell’anima, come se da Erfoud quei pochi chilometri percorsi non fossero stati fisici, reali, ma fossero stati nel tempo e nell’eternità, dentro il mio essere più profondo.
Il timore che il paesaggio potesse scomparire, tanto appariva irreale, faceva sì che lo sguardo provasse a catturare il più possibile e il cuore registrasse ogni minimo moto ed emozione.
Una indicibile sensazione di benessere psico-fisico mi assaliva, come se la natura intorno a me, nella sua maestosità, potesse proteggermi. Era la stessa sensazione fisica avvertita da piccola quando papà, con la sua corporatura robusta e possente, mi stringeva a sé con una tenerezza incredibile.
Complice il sole, pronto per accucciarsi dopo aver dato il meglio di sé durante il giorno, il colore della sabbia delle dune assumeva tinte ambrate. Il cielo, in attesa di ospitare le stelle, si divertiva a regalare sfumature blu cobalto.
“Ecco, la attirerò a me,
la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore.”
Mi tornavano in mente le parole del Profeta Osea (2,16), anche se quello della Bibbia non è geograficamente il deserto del Sahara. Ma il deserto è comunque il luogo dove è possibile che il cuore, libero da ogni sovrastruttura e barriera, sia docile ad accogliere il mistero.
Il cuore torna ad essere non solo il regno dei sentimenti e delle emozioni, ma della sublimazione di essi.
Avvicinandomi al villaggio di Merzouga incrociavo volti e sguardi fuori dal tempo, ma carichi di vita. Anche in una breve sosta per consumare un delizioso pane cotto sulla pietra, la conversazione con la gente del posto, su argomenti semplici, assumeva toni alti perché lì nel deserto la vita, la morte, il dolore, si intrecciano con il linguaggio quotidiano.
Difficile raccontare il tempo trascorso tra le dune seguendo un ritmo cronologico: alba, giorno, tramonto, notte si susseguono e si confondono e non è il tempo a dettare lo scorrere delle ore, ma sono le emozioni e le sensazioni che catturano l’anima.
Una delle più intense è senz’altro l’essere avvolti dal cielo stellato, che è limpido e nitido come la carta azzurra che si usava da piccoli per fare il presepe.
Anche sulle spalle le stelle facevano capolino come se la volta celeste volesse chinarsi ad accarezzarmi il viso, lasciandomi sbigottita di fronte a tale immensità.
Verso le 5 del mattino, a causa della escursione termica, un freddo pungente mi assaliva, mi scuoteva quasi a volermi svegliare a forza per non perdere il miracolo dell’alba che puntualmente ogni giorno si ripete. E’ il miracolo della vita che delega il sole ad accendere la natura circostante. Ed ecco le dune si tingevano di colori nuovi, più tenui, quasi diafani.
Si ripartiva ogni volta nella consapevolezza di aver trovato il luogo nel mondo dove l’essenzialità permette di cogliere il senso del vivere, dove il cuore dell’uomo trova ristoro, dove è visibile Dio.
Lucia Valori